Stando ai dati diffusi dall’Anpal, dopo circa un anno dall’avvio dell’istituto del reddito di cittadinanza, va rilevato che l’ammissione al programma di sostegno, contrariamente alle aspettative, non ha generato nuova occupazione. Su quasi un milione di beneficiari, infatti, solo il 6,7% ha sottoscritto un contratto di lavoro. Da questo punto di vista si tratta di un fallimento, ove si consideri che il c.d. “patto di servizio” è stato rubricato dal legislatore quale misura di politica attiva del lavoro.
Naturalmente il giudizio cambia se si considera lo strumento nella sua forma meramente assistenziale, stando all’elevato numero di soggetti in gravi difficoltà economiche che hanno potuto accedere al sostegno reddituale. Appare chiaro, tuttavia, che questa forma di interventi risulta inefficace per condurre i beneficiari dall’indigenza ad un impiego stabile. Dei soli 65.302 contratti di lavoro stipulati, infatti, il 61,8% ha riguardato rapporti a tempo determinato e di questi l’88,7% ha avuto una durata inferiore a 6 mesi.
L’inefficacia nel tradurre l’istituto del reddito di cittadinanza in nuovi posti di lavoro è dovuta a diversi fattori. Principalmente il programma elaborato dal legislatore sconta lo scarso appeal degli incentivi ad esso connessi per le aziende che intendano assumere i percettori del sostegno, oltre che le farraginose procedure burocratiche prefissate e l’inefficienza degli uffici preposti all’incontro tra la domanda ed offerta di lavoro. A ciò si aggiunga che l’erogazione del sostegno presta il fianco a possibili abusi da parte di alcuni beneficiari che per non perdere l’indennità scelgono la via dell’inattività, se non quella del lavoro in nero, come si evince dai numerosi accertamenti effettuati dagli organi ispettivi.
Si tratta di criticità, del resto, facilmente preventivabili e che ricalcano quelle emerse per misure analoghe, come quelle relative all’inserimento lavorativo dei beneficiari dell’indennità di disoccupazione, per i quali, tra l’altro, gli incentivi economici a favore delle imprese in caso di assunzione sono notevolmente superiori rispetto a quelli configurati per i percettori del reddito di cittadinanza.
Appare evidente, dunque, che allo stato attuale, dopo il primo anno di vita del nuovo istituto, alcune cose dovranno essere riviste se si vuole continuare a puntare ad esso come ad uno strumento efficace di politica attiva. La questione risulta quanto mai urgente, stante la fase storica che stiamo vivendo, nella quale sarà necessario, terminata l’emergenza da Covid-19, mettere in campo ogni strumento possibile per rilanciare l’occupazione.